Da Pisciotta in poi, ha vinto la menzogna

di Gabriella Smith – Roma, 16 novembre 1980. Siamo a Montecitorio, nel «Palazzo»; il Transatlantico è quasi deserto. La luce grigiastra che entra dalle ampie vetrate anticipa l’inverno. Siamo seduti di fronte a Leonardo Sciascia, una delle personalità più originali e acute nel panorama della letteratura italiana con i suoi romanzi sempre problematici che stimolano il lettore ad approfondire e scavare, al di là delle parole, l’essenza dei temi proposti. E’ questo il motivo che ci ha spinto a chiedere a Sciascia un’intervista. Parlare dei suoi libri, discutere con lui – in particolare – dell’«Affaire Moro». Entriamo subito in argomento.

Domanda: “La sua lunga opera, da “Il giorno della civetta” a “A ciascuno il suo”, “Il contesto”, “Todo Modo”, fino all‘“Affaire Moro”, non è che una lunga metafora sul potere. Da circa due anni vive nel “Palazzo”, ha scoperto un nuovo volto del Potere?”

Sciascia: “In Italia il potere rimane sempre misterioso; non si capisce bene chi lo detiene. La mafia? Certamente è un potere”.

Domanda: “E la DC?”

Sciascia: “Anche la Dc, certo. Ma la Dc mi fa pensare al lungo racconto di Melville, “Benito Cereno”, dove c’è un capitano che in realtà non comanda niente e nessuno. Chi comanda è un altro. Il potere è sempre “altrove”.

Domanda: “Sarebbe a dire?”

Sciascia: “Che all’interno della Dc vi sono uomini che fanno parte del potere, per esempio Andreotti; ma anche nel PCI vi sono uomini che fanno parte del potere. Il potere non è mai monolitico e gli uomini del potere non si riconoscono a vista d’occhio. Questo è un danno per la democrazia”.

Domanda: “Moro era un uomo di potere? O era – come disse Pasolini – il meno implicato?”

Sciascia: “Moro non era un corrotto. Anche se si è mosso in un contesto di corruzione generale, personalmente egli ne è rimasto immune. Certamente era a conoscenza di molte cose, pure non le ha mai usate contro la Dc, neppure durante i famosi 55 giorni”.

Domanda: “Lei ha sempre sostenuto che le lettere dalla “prigione del popolo” erano autentiche. Tesi contrastata dalla DC e persino da un gruppo di amici cattolici di Aldo Moro. Ora sembra che si riconosca alle lettere l’autenticità. Come spiega questo diverso atteggiamento?”

Sciascia: “Negare ancora l’autenticità delle lettere sarebbe ridicolo; persino Zaccagnini, quando è venuto in commissione, ha detto che le lettere erano di Moro. Sono intervenuti troppi elementi, in questi due anni, per sostenere ancora il contrario. Del resto, anche George Mosse nel suo libro su Moro ha sostenuto l’autenticità delle lettere”.

Domanda: “Lei, nell‘“Affaire” sostiene che Moro non fu uno statista, ma piuttosto un politicante, nel senso migliore che può darsi a questa accezione”.

Sciascia: “Infatti. Nessun cattolico in Italia può essere statista; esiste un motivo storico: l’Italia ha sempre posto il cattolico contro lo Stato; il cattolico piuttosto nutre un senso di vendetta contro lo Stato”.

Domanda: “Allora in questi 30 anni di vita repubblicana, non abbiamo avuto neppure uno statista?”

Sciascia: “De Gasperi. Ma De Gasperi ebbe una diversa formazione culturale: una cultura e un’educazione mitteleuropea; si era formato sotto l’impero austro-ungarico”.

Domanda: “Moro, non essendo uno statista, chiedeva la trattativa?”

Sciascia: “Paradossalmente Moro acquisì il senso dello Stato proprio nella “prigione del popolo”. Moro chiedeva di trattare in nome della vita umana, di Beccaria, della Costituzione che ha cancellato la pena di morte e non per una livida ragione di Stato. A mano a mano che conosco i suoi scritti, i suoi discorsi, rimpiango che Moro, con le sue qualità, non sia stato uno statista”.

Domanda: “Nel suo libro, mi riferisco sempre all‘“Affaire”, lei riporta un aneddoto: Moro studiava attentamente, quando era guardasigilli, la vita nelle carceri e si intratteneva a lungo con i detenuti. Come spiega questo atteggiamento?”

Sciascia: “Moro voleva capire il terrorismo. Per lui non si trattava di un problema di repressione e di polizia; voleva comprendere il fenomeno, studiarne le motivazioni, il significato. Per questo leggeva scrupolosamente tutto quanto apparisse, articoli, saggi, sul terrorismo. Si era accinto alla lettura dei “Demoni” di Dostojewskij. Moro era molto formale, ma aveva delle terribili inquietudini. Viveva in una dimensione borgesiana”.

Domanda: “A suo giudizio, quando nelle lettere Moro parlava della famiglia, a chi intendeva rivolgersi realmente?”

Sciascia: “E’ mia convinzione – e l’ho scritta nel libro – che Moro intendesse parlare del partito. Moro non ha mai disconosciuto il partito, se ne è sentito parte integrante fino alla fine. Lo riprovano le ultime lettere. È amaro nei confronti del partito, ma non lo disconosce. Infatti scrive che ai suoi funerali non vuole “gli uomini del potere” ed è pronto a morire” se così vuole il mio partito”.

Domanda: “C’è qualcuno che possa raccogliere l’eredità di Moro?”

Sciascia: “No, penso che fosse insostituibile”.

Domanda: “Nelle lettere Moro profetizzava che con la sua morte, la DC sarebbe stata “travolta”, che si sarebbe aperta una spirale terribile, che la DC non avrebbe potuto “fronteggiare”. Pensa che ciò sia accaduto?”

Sciascia: “Per un certo verso. La DC ha indubbiamente perduto prestigio e terreno, non ha un progetto politico. Ora è Craxi che parla con i partiti minori fino a ieri satelliti della DC”.

Domanda: “Ha parlato di progetto politico: come valuta il progetto laburista”.

Sciascia: “E’ un progetto possibile, anche perché sulla piazza non ne esistono altri. Il compromesso storico è diventato un reperto archeologico. Lo dicevo giorni or sono ad alcuni amici socialisti siciliani: lasciate lavorare Craxi”.

Domanda: “In una lettera a Zaccagnini, Moro usa temi apocalittici e preconizza un’oscura sorte per la Repubblica. Secondo lei, questa Repubblica si salverà?”

Sciascia: “Sono più ottimista oggi di ieri”.

Domanda: “Allora, potremo rivedere le lucciole?”

Sciascia: “Io faccio il deputato, lei fa il giornalista. Non è già questo, un segno positivo? Finché si ha voglia di fare qualcosa significa che si nutrono speranze. Il vero pessimismo è il “non fare”.

Domanda: “Nel quadro dell’ottimismo, gioca un ruolo anche il ripiegamento delle BR, alle quali lei ha attribuito sempre un’origine autoctona. Come spiega il declino delle BR? Non crede a una regia?”

Sciascia: “E’ certamente dovuto all’opera della polizia. Dalla Chiesa ha i suoi meriti. Per il resto, rimango dell’idea che le BR siano di marca prettamente italiana, anche se non posso escludere che ci sia una regia”.

Domanda: “Lo slogan che rifletteva la posizione di molti intellettuali: né con le BR né con lo stato, oggi trova ancora consensi?”

Sciascia: “Precisai, allora, e lo preciso ancora, che questa non fu mai la mia posizione. Semmai tale slogan era da correggere in questo senso: contro le BR e contro questo Stato. Rimango contro le BR e vediamo se possiamo costruire uno Stato”.

Domanda: “Le BR, il terrorismo in genere, possono dirsi sconfitti?”

Sciascia: “E’ ancora facilissima, credo, l’opera di reclutamento della manovalanza”.

Domanda: “In quale rapporto, se c’è, pone il declino delle BR con l’uccisione di Moro?”

Sciascia: “Moro non ha mai fatto uso delle cose, che certo non ignorava, contro la DC; nel memoriale ritrovato in via Montenevoso si leggono giudizi sferzanti contro uomini della DC, ma non esistono rivelazioni di alcun tipo”.

Domanda: “Le BR non hanno raggiunto il loro scopo, allora?”

Sciascia: “Credo che saranno stati registrati chilometri di nastri di conversazioni con Moro senza che emergesse nulla da usare agli scopi delle BR. Infatti nell’ultimo comunicato affermano di non avere rivelazioni da fare. Moro deve avere soggiogato le BR; è stata senz’altro una vittoria morale di Moro e uno scacco delle BR. Moro ha provocato lo sfascio delle BR”.

Domanda: “Se si fosse seguita la linea della trattativa, Moro si sarebbe salvato?”

Sciascia: “Credo che ucciderlo fosse nell’ordine delle cose. Si sarebbe potuto salvare solo con un’operazione di polizia. Per questo Moro insisteva”.

Domanda: “Vuol dire che nei 55 giorni Moro usava la sua tattica: prendere tempo col dire o non dire?”

Sciascia: “Sì. Egli cercava di dare indicazioni nella speranza che qualcuno sapesse leggerle. Rifletteva un mio lettore, e forse a ragione, che allorché Moro scriveva di essere sotto un “dominio pieno e incontrollato”, faceva un esplicito riferimento. “Incontrollato” sta per luogo dove non si è fatto alcun controllo e “dominio” per (con)dominio”.

Domanda: “Poteva riferirsi a Via Gradoli?”

Sciascia: “Non lo so. Ma anche nella lettera a Freato, trovata a via Montenevoso, Moro riferendosi all’ambasciatore Cottafavi – in quel momento fuori Roma – scrive: “Bisogna richiamarlo qui”. È evidente che “qui” significa Roma. Non ho dubbi che Moro abbia dato precise indicazioni e che si trovasse nella capitale; gli elementi non sono stati sufficientemente valutati”.

Domanda: “Da chi?”

Sciascia: “Da coloro che decisero per tutti. Si trattò di 5 o 6 persone che si arrogarono il diritto di decidere per tutti. Ci fu un’aria di golpe. Non consultarono gli organi statutari del partito, come aveva chiesto Moro. Si trattò di un golpe dovuto a un calcolo, perché non tutti, nella DC, erano così fermi nel rifiuto di una linea di flessibilità; ma chi era contrario a questa fu messo a tacere, come l’on. Cervone. La DC non poteva dimenticare l’aggettivo cristiano per il quale la vita umana è sacra”.

Domanda: “La trattativa, nell’ottica di Moro, era dunque un espediente per guadagnare tempo sperando che si scoprisse il luogo in cui era tenuto prigioniero. Adesso che con i terroristi si è instaurato una sorta di trattativa, si ottengono alcuni risultati?”

Sciascia: “Era la linea di Craxi, che ora viene seguita e molti terroristi parlano”.

Domanda: “Si riferisce ai brigatisti pentiti?” Sciascia: “La figura del brigatista pentito si sta istituzionalizzando. Resta da vedere se già non fosse pentito, prima ancora di essere arrestato. Comunque si sta dando troppo credito, veda il caso Donat Cattin-Sandalo: la linea di tendenza era di dare più credito a Sandalo”.

Domanda: “Crede che i brigatisti si pentano solo per le attenuanti che concede loro la legge, oppure si può ricondurre il problema nel quadro della tradizione cattolica italiana? Il pentimento è una categoria del cattolicesimo”.

Sciascia: “In un certo senso sì. E si può aggiungere che in un paese conformista com’è l’Italia, è entrato ora il conformismo del pentito”.

Domanda: “Lei parla della Commissione Moro. Crede che dalla Commissione uscirà qualche verità?”

Sciascia: “Penso che una verità ci sarà, anche se intesa in senso pirandelliano”.

Domanda: “E’ d’accordo con la segretezza dei lavori?”

Sciascia: “Sarei per le sedute pubbliche, magari in ripresa diretta in TV, ma dato che si è ritenuto opportuno il segreto istruttorio, vorrei che questo fosse rispettato. Sono stato la prima vittima della fuga di notizie. Quanto avevo detto in commissione è stato riportato in maniera deformata e ha avuto come conseguenza un’affrettata ed incauta querela di Berlinguer alla quale ho risposto con una denuncia”.

Domanda: “Ci sono altri punti sui quali non è d’accordo per i lavori della commissione?”

Sciascia: “E’ stato un errore ascoltare gli uomini politici e i funzionari in libere audizioni. Dovevano essere ascoltati nella veste di testimoni. Così vengono a raccontarci quello che vogliono, lasciando un margine ristretto per le domande. Ma il vero handicap della commissione è l’eccessivo numero dei componenti: 40 fra deputati e senatori. Vero è che non sono mai tutti presenti.”

Domanda: “Abbiamo parlato, all’inizio della nostra conversazione, del Palazzo, in senso pasoliniano. Sono 5 anni che Pasolini è morto e ancora non si conosce la verità; ora si vuole riaprire il processo appunto per fare luce. Ma l’Italia è piena di misteri di questo tipo: il caso Montesi, quasi trent’anni e non si è mai saputo nulla di preciso; la morte di Mattei, del giornalista De Mauro, Moro e, lontano nel tempo, il caso Maiorana sul quale lei ha scritto anche un libro. L’Italia è dunque una repubblica avvolta dai misteri?”

Sciascia: “Il mistero è nella mancanza di individuazione del potere. Per fare un esempio: sulle tangenti ENI Craxi, bene o male, ha cercato di perseguire una verità.”

Domanda: “Questo sottintende che esiste una scelta perché i misteri rimangano tali?”

Sciascia: “In Italia c’è stato un momento in cui si è scelta deliberatamente la menzogna: il momento ha coinciso con l’uccisione di Gaspare Pisciotta nel carcere dell’Ucciardone, dopo la morte di Giuliano. Da quel momento, la scelta fu la menzogna e sono cominciati i misteri.”

Domanda: “In questo contesto, come si colloca il ruolo dello scrittore?”

Sciascia: “Il ruolo dello scrittore in questo momento non può essere che di testimonianza. Lo scrittore deve vedere e testimoniare, ma dalla sponda dell’opposizione. L’intellettuale, in quanto cittadino, non può svolgere che un ruolo di opposizione critica, altrimenti entra nel sistema.”

Domanda: “Non è d’accordo, dunque, con Gramsci sull’intellettuale organico?”

Sciascia: “No. L’intellettuale deve essere quanto più possibile inorganico, altrimenti finisce per diventare il concime del potere.”