Come e perché Giovanni Falcone doveva morire.
E’ noto che Giovanni Falcone lasciò temporaneamente gli incarichi giudiziari per assumere la funzione di direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia. Si è molto speculato su questa sua “mossa”, con l’accettazione dell’incarico propostogli dall’allora ministro guardasigilli, il socialista Claudio Martelli. Falcone tuttavia non si disinteressò mai della criminalità mafiosa e delle menti raffinatissime che nella sua Palermo avevano fatto di tutto per isolarlo, denigrarlo, diffamarlo.
Se ne ebbe la prova quando si scoprì quale fosse stata la sua attenzione, fino a poche ora prime della sua morte, per gli esiti del processo sui “delitti politici”, ovvero gli omicidi di Michele Reina (9 marzo 1979), di Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), di Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo (30 aprile 1982), avvenuti a Palermo.
A quelle indagini Falcone aveva dedicato anni di lavoro, succedendo a Rocco Chinnici che aveva iniziato a occuparsi dell’omicidio di Piersanti Mattarella dopo l’uccisione del procuratore Gaetano Costa nel 1980, fino all’attentato dinamitardo del 1983 in cui perse a sua volta la vita. Falcone, subentrato a Chinnici, proseguì il suo lavoro fino al 1991, affrontando ostacoli interni e procedurali, opposizioni politiche e mediatiche, accuse violente che colpivano il cuore della sua attività, rischiando di delegittimarlo. Si parlò allora di “prove nel cassetto” tenute da Falcone a protezione di discussi personaggi politici, di sfruttamento da parte del magistrato del fallito attentato alla sua vita (ispirato da “menti raffinatissime”, secondo le sue parole) con l’esplosivo ritrovato sulla scogliera dell’Addaura, di comportamenti discutibili o veri e propri reati da lui commessi nell’ambito della “gestione” del pentito Totuccio Contorno (secondo le accuse contenute in una famosa lettera anonima scritta dal c.d. Corvo di Palermo).
Nonostante tutto ciò e l’amarezza che ne derivava, il lavoro di Falcone era sfociato nella requisitoria del 9 marzo 1991, firmata nella veste di Procuratore della Repubblica aggiunto, insieme al collega Elio Spallitta e ai sostituti procuratore Giusto Sciacchitano, Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato. Procuratore della Repubblica era all’epoca il dottor Pietro Giammanco.
Su questo straordinario atto d’accusa si era basata l’ordinanza-sentenza del 9 giugno 1991, redatta dal giudice istruttore Gioacchino Natoli, con cui vennero rinviati a giudizio gli imputati.
Il dibattimento nel giudizio di primo grado, iniziato il 14 febbraio 1992 condusse alla sentenza di primo grado del 15 aprile 1995.
Nel 1992 il dibattimento era quindi appena iniziato e non era ancora stato trattato il delitto Mattarella, episodio criminale che Falcone riteneva, per usare parole del magistrato assassinato, più di altri crimini trascendesse le finalità e gli interessi tipici della criminalità mafiosa, e per cui era fermamente convinto di avere individuato gli esecutori materiali.
Giovanni Falcone dava infatti un nome e un volto a quegli spietati assassini che avevano ucciso il Presidente della Regione Siciliana davanti alla sua famiglia, nel giorno dell’Epifania del 1980. Si trattava di Valerio Fioravanti, ritenuto il killer dagli occhi di ghiaccio rimasto impresso nella memoria della vedova del Presidente, Irma Chiazzese, e di Gilberto Cavallini, ritenuto il complice e guidatore dell’autovettura usata dai due sicari.
La convinzione di Falcone era fortemente basata su un’intelligente opera investigativa, supportata da coerenti testimonianze, e la sua attenzione non si era attenuata dopo il suo trasferimento a Roma: oltre a investigatori come Gioacchino Genchi (che analizzò le agende elettroniche di Falcone egli ultimi documenti consultati prima dell’ultimo suo fatale rientro a Palermo), recentemente anche Roberto Scarpinato, attuale Procuratore generale di Palermo, ha ricordato quanto l’attenzione di Falcone e le sue energie fossero dedicate a quel processo, a quella tesi accusatoria. Si veda in proposito l’intervista di Scarpinato nel corso del programma televisivo Report di Rai Tre del 4 gennaio 2021.
Il dibattimento in aula per quel delitto ebbe luogo dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, e il processo, in assenza di Falcone, prese un’altra piega. L’emersione in nuovi e vecchi collaboratori di giustizia di ricordi prima offuscati fornì alla magistratura giudicante, così come a quella inquirente su altri fatti delittuosi, la chiave per interpretazioni alternative, portando all’assoluzione dei due imputati.
Le dichiarazioni di alcuni pentiti, taciute dagli stessi collaboratori negli anni precedenti e formulate dopo la morte di Falcone, erano state ritenute, pur nella loro genericità e talvolta scarsa tenuta logica, più credibili del lavoro del coraggioso magistrato e dei suoi colleghi della Procura e dell’Ufficio istruzione di Palermo.
Nessuna ulteriore indagine venne successivamente svolta sugli assassini di Mattarella, mai più individuati, anche se diversi pentiti indicarono nel corso dell’inchiesta otto o nove differenti esecutori materiali, per lo più mafiosi di medio-piccolo calibro già scomparsi.
Tutte le indicazioni dei pentiti si rivelarono false, dando l’impressione di una possibile diffusa azione di depistaggio. Questo strano comportamento provoca l’ impressione che, nel mondo mafioso, i capi abbiano inteso formare una sorta di cortina fumogena, fatta di confusione e di tante differenti false indicazioni, per impedire che si scoprisse l’identità del vero killer. Situazione che si può spiegare soltanto se si trattava di un killer fuori dal consueto. Anche questo elemento aggrava la sensazione che l’ambiente mafioso volesse coprire qualcosa riguardo a questo grave delitto.
Qualcosa di così grave, di così connesso a tutte le vicende del lungo, lunghissimo dopoguerra italiano e allo sviluppo nell’arco di tre decenni della cosiddetta strategia della tensione, in cui non è difficile inquadrare il delitto Falcone e, a ritroso, i delitti politici di Palermo dal 1979 al 1982.
Falcone doveva morire, quindi, non per il puntiglio di un boss o lo zelo sanguinario o la vendetta di Cosa Nostra, quanto perché la sua esistenza in vita avrebbe impresso, con ogni probabilità, un diverso andamento alle vicende giudiziarie in corso e, in primis, al processo per i delitti politici, che vedeva la fase dibattimentale in pieno svolgimento e si apprestava a entrare nel vivo con l’esame dei testimoni e gli interrogatori degli accusati dell’omicidio di Piersanti Mattarella.
Proprio sul delitto Mattarella si era espresso, in modo alquanto singolare, il gran maestro della loggia massonica Propaganda 2 (passata alla storia come “loggia P2“) Licio Gelli che nell’agosto del 1989, in un’intervista rilasciata al settimanale Panorama, esortava a lasciar perdere la pista neofascista sostenuta da Falcone e che vedeva implicati i neofascisti dei NAR.
Riportiamo quindi qui, come omaggio a Giovanni Falcone e al suo metodo di lavoro, proprio i volumi n. 2, 3, 4 e 5 dell’ordinanza-sentenza sui “delitti politici”, relativi all’omicidio di Piersanti Mattarella, unitamente a riferimenti al testo completo della requisitoria e dell’ordinanza-sentenza in versione PDF “immagine”.
Questi documenti, per la prima volta resi disponibili in rete in formato digitale aperto, sono così utilizzabili da studiosi o da chiunque sia desideroso di comprendere il modus operandi nell’attività di indagine di Giovanni Falcone e di approfondire, al di sotto dello strato informativo superficiale e retorico dominante, cosa siano stati i delitti politici nella storia recente dell’Italia repubblicana.
Desta impressione la lettura, oltre che delle deposizioni in corso d’istruttoria, del carteggio epistolare di Cristiano Fioravanti (ex terrorista NAR e fratello dell’allora imputato Giuseppe Valerio detto Giusva condannato successivamente all’ergastolo, tra l’altro, come esecutore materiale della strage alla stazione di Bologna) con Falcone, da cui si comprende quale fosse il rapporto di fiducia che si instaurava tra il giudice istruttore e una persona che, detenuta nelle carceri di massima sicurezza e comunque sottoposta alle più forti pressioni per non aggravare con ulteriori deposizioni la situazione processuale del fratello, sceglieva la strada della collaborazione con lo Stato, fornendo contributi che non vennero da lui mai smentiti anche se non furono tenuti in sufficiente considerazione dai collegi giudicanti.
Ci si chiede con quale stato d’animo Giovanni Falcone dovette trascorrere i suoi ultimi mesi di vita, tra polemiche velenose e il frutto del suo lavoro pericolosamente messo a repentaglio dall’ultima sofisticata strategia difensiva dell’indicibile: perché, come ricordò all’epoca nella citata intervista Licio Gelli, riferendosi peraltro specificamente all’omicidio Mattarella, “esistono pure i delitti perfetti”…
Giorgio Siepe – McLean, VA (USA)
Ringrazio l’Archivio Digitale Pio La Torre per aver reso disponibili in rete le fotocopie della documentazione originale.
REQUISITORIA (link esterno)
Procedimento penale contro Greco Michele e altri – Requisitoria
Procura della Repubblica di Palermo – (N. 3162/89 A P.M.).
Sostituti procuratori: Giusto Sciacchitano, Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato.
Procuratori della Repubblica aggiunti: Elio Spallitta e Giovanni Falcone
Procuratore della Repubblica: Pietro Giammanco.
ORDINANZA-SENTENZA (link esterno)
Ordinanza-sentenza emessa nel procedimento penale contro Greco Michele + 18 per gli omicidi Reina-Mattarella-La Torre-Di Salvo.
Tribunale di Palermo – Ufficio Istruzione processi penali
(N. 3162/89 A – P.M.; N. 1165/89 R.G.U.I.).
Cancelliere: A. Radica
Giudice istruttore: Gioacchino Natoli, Palermo
DOCUMENTI DIGITALI IN FORMATO APERTO (file locali)
Ordinanza-sentenza – Volume 2 (file PDF con testo OCR)
Ordinanza-sentenza – Volume 3 (file PDF con testo OCR)
Ordinanza-sentenza – Volume 4 (file PDF con testo OCR)
Ordinanza-sentenza – Volume 5 (file PDF con testo OCR)